Le parole fanno l’amore sulla pagina come mosche nella calura estiva e
il poeta non ne è altro che lo spettatore stupefatto.
Cosa ho imparato dagli spaghetti
di Charles SIMIC (trad. Alberto Fraccacreta)
Non ho bisogno di essere messo sotto ipnosi per recuperare il ricordo del primo piatto di
spaghetti che abbia mai mangiato. Sono arrivato tardi al
cibo italiano. Mia nonna e mia madre preparavano tagliatelle e maccheroni, ma
nient’altro che potesse essere lontanamente descritto come italiano. Nella famiglia di
mia madre, l’aglio e l’olio d’oliva, due delle impareggiabili delizie
della vita, erano considerati con orrore, come qualcosa con cui le persone di etnia e classe
sospette ricoprivano il loro cibo. Fu su una pizza che l’aglio in quantità oscene
entrò per la prima volta in casa nostra. Quanto agli spaghetti, magari li servivano in
una scodella, ma uscivano da una lattina comprata al supermercato. È vero, mio padre
ogni tanto portava a casa una bottiglia di Chianti, un po’ di salame genovese e un
provolone, ma questi li consumava per lo più da solo, dato che io e mio fratello
eravamo restii a condividere un rito che mia madre apertamente disapprovava. Con il crollo
del matrimonio dei miei genitori, quando mi sono trasferito all’età di 18 anni,
non mi sono reso conto che alla fine avrei trovato una casa surrogata nei ristoranti
italiani.
Nell’agosto del 1956 trovai lavoro al «Chicago Sun-Times» e un
piccolo appartamento vicino al Lincoln Park. Avevo un diploma di scuola
superiore, ma non avevo soldi per andare al college se non di notte. Ho mangiato per lo
più in cucchiai unti fino a quando un collega con cui lavoravo mi ha portato in un
ristorante cinese e infine in uno italiano. Prima di andare oltre, lasciatemi dire che i
camerieri fanno la differenza nei ristoranti italiani. Chiacchieravano con me e commentavano
i piatti che ordinavo. Col tempo sono diventati i miei professori in quello che si è
rivelato essere uno studio per tutta la vita. Fin da quando ero solo all’asilo, ho
imparato le nozioni di base come il pane all’aglio, le olive verdi e nere, le
acciughe, il minestrone, la lasagna, la parmigiana di vitello, la salsiccia e i peperoni.
Ero l’animale domestico di un insegnante — si potrebbe dire — disposto a
inventarsi qualsiasi cosa e a gradire che assaggiassi tutto. Cinquant’anni fa,
mangiare molto era ancora considerato una prova di buona salute. La filosofia era: più
mangiavi, più eri felice. Non avevo bisogno di essere convinto. Sono tornato dai miei
amici italiani ogni volta che ne ho avuto l’occasione.
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